Quel che resta di un muroRicordo il mio primo giorno al Ninni Cassarà: pioveva e io non capivo dove fosse la scuola perché a prima vista sembrava soltanto un enorme palazzo con un cortile spoglio, tutto asfalto e con le grate di ferro arrugginite. Pregustando il piacere di trovarmi al riparo, rimasi delusa. Dall’interno all’esterno sembrava non essere cambiato nulla: cupo e umido fuori, grigio e freddo dentro.

Ancora oggi, a distanza di cinque anni, questa sensazione mi aleggia per la testa ogni volta che la campanella suona e mi ritrovo a camminare per i corridoi tristi e poco illuminati, a salire gli scalini ricoperti di cicche di sigarette e polvere, accompagnata fino in classe da dichiarazioni d’amore per un ragazzo o una squadra di calcio, insulti razzisti o disegni che hanno qualcosa di grottesco, perché sui muri della mia scuola si vede quasi solo questo: un cartellone ogni tanto, misero tentativo di dare vita ad un luogo tanto trascurato, ma il dominio delle scritte sulle pareti è assoluto, dispotico, opprimente.

Apro la porta (senza maniglia) della mia aula, e raggiungo il mio posto. La sedia ha delle parti rovinate, e le punte del legno potrebbero bucarmi i jeans se non facessi attenzione. Il banco è troppo basso per me, ci sbatto le ginocchia, allora faccio per spostarlo un po’, ma sento sotto le dita una vecchia chewing-gum che sarà lì ormai da secoli, e ritraggo la mano, disgustata. Fa freddo, perché i riscaldamenti non sono accesi, così mi stringo al giubbotto e magari tra un po’ spunterà il sole. Una mia compagna, invece, si è attrezzata e sta stendendosi un plaid sulle gambe.

Entra in classe la professoressa, tutti in piedi. Avremmo dovuto vedere un documentario nell’ora di Storia, ma non ci sono proiettori funzionanti e la tv non ha il lettore necessario, quindi siamo costretti a limitarci a leggere dal libro l’argomento che c’interessa. Adesso ci tocca un’ora di Educazione Fisica: andiamo a cambiarci nello spogliatoio dei ragazzi, perché quello femminile è inagibile. Vorremmo giocare a pallavolo ma i tetti sono troppo bassi, i palloni troppo vecchi. Il campetto, invece, è occupato dai ragazzini del quartiere: meglio non contrariarli, se non si vuole passare un brutto quarto d’ora. A ricreazione ho bisogno di andare al bagno. L’ambiente è saturo di fumo, perché nessuno controlla cosa avvenga al suo interno, e il rosso delle piastrelle è quasi invisibile sotto i tratti dei pennarelli indelebili utilizzati per scriverci su. La maggior parte delle porte non ha un chiavistello, così sono costretta a chiedere a qualcuno di fare attenzione che nessuno entri. Tiro lo sciacquone, o meglio, mi piacerebbe farlo, ma la cassetta dell’acqua è guasta e la tazza è intasata. Esco dicendo alle ragazze in fila che conviene che scendano al piano di sotto e vado a lavarmi le mani: l’acqua è praticamente congelata e scorre lenta da un tubo di gomma perché il lavandino è stato riparato per come si poteva: male.

Torno in classe e le lezioni riprendono. La prof di Matematica vuole spiegare, ma è allergica al gesso, dunque non può usufruire dei minuscoli gessetti rimasti. Il mio compagno va a chiedere un pennarello per la lavagna bianca e lo mandano in giro per tutta la segreteria per poi rispedirlo in classe per riferire alla professoressa che c’è bisogno di una richiesta scritta dell’insegnante. Così lei strappa un foglietto e scribacchia velocemente quanto richiesto. Luca torna con il pennarello e sfruttiamo l’ultimo quarto d’ora che ci rimane per cercare di decifrare cosa ci sia scritto alla lavagna, ma soprattutto cerchiamo di capire cosa dobbiamo ricopiare sul quaderno dato che traspaiono ancora le scritte di qualche anno fa. Alla fine della giornata, torno a casa amareggiata, penso a quanto io ami apprendere, confrontarmi coi miei compagni e con i miei professori, ma rifletto anche sulle condizioni in cui siamo costretti ad esercitare il nostro Diritto allo Studio. Ho paura, perché una società che non si cura del luogo in cui nasce la Cultura, non ha futuro.

Ma io e i miei compagni non ci lasceremo paralizzare, non affonderemo il piede nella palude come hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni prima di loro: c’è una luce, una fiammella di speranza che brilla nei nostri cuori. Non sono né i soldi, né le raccomandazioni: è la fiducia nel lavoro onesto, nella solidarietà, nell’allegria e nella voglia di fare. E’ la forza che troviamo dentro di noi e che ci ha spinto a chiedere aiuto, perché tutto ciò che desideriamo è una scuola a colori, un giardino dove guardare fiorire le nostre possibilità, i nostri talenti, ma anche le nostre debolezze, un luogo dove poterci riunire non per essere inondati di nozioni e compiti, ma dove ognuno di noi possa scoprire qualcosa di sé, degli altri e del mondo, un ambiente il cui portone sarà sempre aperto per noi, a qualsiasi ora del giorno, dove si possa imparare a vivere sognando e a vivere i sogni.

di Norma Tumminello